Caro Ettore Sottsass ti scrivo

Aggiornato il: 30 Ottobre 2021

Pubblicato il: 10 Ottobre 2017

Introduzione

Un lungo e appassionato saluto ad una personalità che incanta. Ettore Sottsass è stato un architetto, designer, fotografo e disegnatore italiano. La macchina da scrivere Valentine di Olivetti (1968) è opera sua.

Questione di prospettive

Ettore Sottsass

Certo, è abbastanza scontato scrivere di Ettore Sottsass proprio adesso, a cent’anni dalla sua nascita. Un anniversario celebrato sia dallo scorso Salone del Mobile che dalla mostra in corso alla Triennale di Milano. Un momento in cui parlarne è decisamente trendy, ma non importa poi molto.

Questo articolo potrebbe prendere tantissime pieghe diverse. Potrei scrivere un’opinione critica su come è stata curata la mostra, analizzando stanza per stanza. Potrei fare una summa di quello che è stato Ettore Sottsass, raccontando il personaggio a tutti coloro che ancora non hanno avuto la fortuna di conoscerlo e scoprirlo. Oppure potrei dei suoi oggetti di Design, delle sue foto e dei progetti di architettura.

Invece mi limiterò, da brava ammiratrice quale sono, a scrivergli una lettera proprio come fosse ancora vivo. L’unica cosa da fare per una persona che si è innamorata di qualcuno al punto da dedicargli il primo articolo di una rubrica.

La lettera

Caro Ettore,

l’unica cosa che mi dispiace è non averti conosciuto prima. Ma forse è meglio così, dato che mi sei capitato in testa all’improvviso, proprio come una tegola caduta dal tetto. E, in effetti, una botta in testa mi sembra proprio di averla presa.

Ho passato tanto tempo (forse troppo) a cercare nelle persone un modo di pensare in cui potermi specchiare e riconoscere e dare un senso a tanti pensieri disordinati che io, nel mio caos ordinato, non riesco certo a riordinare. Sono appassionata di poesia, ma ancor di più sono appassionata di idee, sia quelle dette che quelle non dette. Un giorno – era aprile – un’amica mi ha trascinata ad una mostra che portava il tuo nome. Ammetto, non sapevo chi fossi e nemmeno avevo voglia di scoprirlo – il Salone del Mobile mi mette sempre un po’ a disagio, con tutte quelle paillettes e calici di vino radical chic. Che noia la gente che si prende troppo sul serio. Ma questa è un’altra storia (so che saresti d’accordo con me).
Sono entrata in via Della Moscova 27 e, dopo aver attraversato il fiume di profumi da sera, ovviamente molto radical chic, mi sono trovata di fronte ai tuoi disegni, alle tue foto. Mi hai incuriosita. Quei tratti naive già mi parlavano di una personalità densissima. Un sensibilità e una profondità di pensiero che raramente ho incontrato.

Mi sei piaciuto. So che dovrei essere critica nei tuoi confronti, perché è sempre sbagliato prendere una persona e adorarla troppo intensamente, senza prendere le distanze. Però i colpi di fulmine funzionano così, almeno per l’esperienza che ho io del mondo. E per la tua?

La situazione è nettamente peggiorata quando ho deciso di leggere il tuo Scritto di Notte, edito da Adelphi nel 2010. Se solo potessi vedere il numero di sottolineature e orecchie che ho fatto alle pagine…penso ti faresti una grossa risata. Piccoli segnali che do a me stessa per ricordarmi di rileggerti.

Apro il libro alla prima stropicciatura e leggo:

Quella signora simpatica vestita di nero ci insegnava matematica, chimica, fisica e scienze naturali. (…) Poi lei ha cominciato: “Esistono due classi contigue di grandezze” e ha continuato più o meno per un’ora senza che nessuno, credo, riuscisse a capire niente.
Io, a corto di intelligenza speculativa, abituato a raccogliere mirtilli rossi o mirtilli neri con un pettine speciale per portarli a mia madre, che ci faceva le sue marmellate, non soltanto non capivo il significato di quelle parole “Esistono due classi contigue di grandezze”, ma purtroppo non capivo neanche “perché” nel mondo potesse essere stata inventata una frase di quel genere.

Altra stropicciatura:

A dire la verità la parola arte, usata e strausata, non mi piace per niente. Sa troppo di Ottocento, e ormai serve solo per spiegarsi in fretta. Serve per dire tutto in fretta, per dire che c’è l’arte dovunque, come la creatività che c’è dovunque.

Ma quello che più mi ha colpita di questo libro è il tuo modo di vedere la scuola e l’educazione. O, come le chiami tu, le nozioni di base.

Ci dicono che ci diplomiamo e ci laureiamo perché qualcuno, non si sa bene a che titolo, ci deve insegnare le nozioni di base. Nozioni di base di matematica, storia, geografia, italiana. Ma ci siamo mai chiesti che senso ha tutto questo?

Prima di parlarne a te, Ettore, questi discorsi li facevo con un mio amico. Facevo ancora l’università, studiavo semiotica (sì, i mattoni da cervellotici). Il mio amico un giorno mi ha chiesto perché lo stessi facendo e se secondo me serviva davvero una laurea per saper stare al mondo. Avrei voluto rispondergli di sì.

Quante cose facciamo noi uomini sapiens sapiens, senza neanche chiederci perché.

Conosco così tante persone che non hanno studiato le nozioni di base, eppure conoscono tante cose molto meglio di me.

Tu scrivevi:

Dicono: “Vi diamo le nozioni di base. Sono necessarie le nozioni di base”. I padri dicono:”Prima vada a scuola, impari le nozioni di base, prenda il diploma e poi faccia quello che vole”. Ma chi le decide le nozioni di base? (…)
Dove cominciano le nozioni di base , e dove finiscono? E se la necessità delle nozioni di base cambiasse ogni giorno, ogni anno, ogni decennio, in ogni luogo?
I più grandi massacri al mondo li ha sempre inventati qualcuno che voleva cambiare le nozioni di base.

Che bello leggere da qualcun altro un pensiero che mi perseguita da anni. Non faccio altro che pormi domande su domande, continuando a viaggiare di città in città per cercare di rispondere. Sono sicura che nemmeno tu ce le hai le risposte, ma se fossi qua potremmo decisamente parlarne. E sarebbe molto bello.

Caro Ettore sono sicura che anche tu sei furbo, e di certo sei un grande cultore di te stesso. Narciso come pochi. Un po’ bohémien (forse te lo potevi permettere? Dai lasciami qualche critica, sennò non ne esco viva).

Però nel momento in cui dici:

Un giorno sulla porta aperta del mio studio si era affacciata una ragazza non alta, non tanto bella, minuta, ossa sottili, con la faccia secca preistorica, con capelli neri duri. Sorrideva. Era venuta a sedersi davanti a me, continuava a sorridere senza dire niente.  (…)
In un lampo, in un istante cortissimo, mi sono innamorato.
Non so che cosa vuol dire. Forse vuol dire che ogni più piccola, imprevedibile frazione del tempo diventa assolutamente di pietra, vuol dire che si è come ipnotizzati, in trance, vuol dire che si comincia a star male, forse perché si sono perse tutte le certezze e quelle certezze si sa che sono nell’altra persona, uno le va cercando nell’altra persona se no muore, se no non respira, soffoca.

Certo che le parole tu le sai usare proprio bene. Anche di questo mi sarebbe piaciuto parlare con te, e invece mi trovo a scrivere questa lettera che di certo non leggerai.

Ma almeno sarà servita a dire a tutti coloro che mi hanno seguita fino a qui: chiudete il computer e andate a conoscere Ettore Sottsass. Oltre a Scritto di Notte ci sono molti altri suoi libri che leggerò anche io.

Prendete un biglietto per Milano e andate in Triennale a vedere There is a planet, la mostra dedicata a questo grande pensatore. Oppure uscite di casa, andate al parco e chiedetevi che cos’è la perfezione.

C’è sempre una perfezione che viene perduta. C’è sempre un incantesimo che non si trova più. Come quando raccoglievo i lamponi nel bosco la mattina presto. È un ricordo qualunque ma ho molte, moltissime nostalgie di ricordi privati, ricordi di antiche perfezioni perdute. (…)
Si continua ad abbandonare qualcosa. Si continua a dire addio. Il problema, forse, è cercare di inventare nuove perfezioni, pensare che ogni momento è una perfezione che comunque si può perfezionare – voglio dire il problema permanente è costruirsi nuove perfezioni di cui poi continuare ad avere, per sempre, nostalgia.

Chiudo così la lettera più appassionata che io abbia mai scritto ad una persona (che non c’è, ma alla fine c’è sempre, in qualche modo).





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